Negli ultimi tempi si moltiplicano le proposte legate al tema della salute e del peso corporeo anche all’interno del mondo del lavoro.
Incentivi economici, iniziative aziendali e nuovi approcci sembrano voler promuovere il benessere dei dipendenti, ma spesso dietro a queste iniziative si nascondono messaggi e logiche discutibili. L’idea di premiare economicamente chi riesce a perdere peso solleva interrogativi profondi sul rispetto della persona e sulla reale finalità di certe politiche.

Come donna e come cittadina, non posso che provare indignazione di fronte a pratiche che rischiano di umiliare, giudicare e semplificare problemi complessi. La salute non dovrebbe mai essere trattata come una semplice merce di scambio o come strumento di controllo sociale.
Incentivi o umiliazioni mascherate?
L’esempio che arriva dalla Cina — con l’azienda Chengdu Galaxy Magnet che premia i dipendenti che dimagriscono e chiede la restituzione del bonus se riprendono peso — apre scenari inquietanti. Iniziative come queste non fanno altro che alimentare la cultura della colpa: si mette il peso corporeo al centro della valutazione professionale e si dà un messaggio implicito che il valore del lavoratore dipenda anche da quanto riesce a modellare il proprio corpo per compiacere l’azienda. Questo non è promuovere la salute, è perpetuare la discriminazione.

In più, l’obesità è oggi riconosciuta ufficialmente come malattia cronica: richiede un approccio medico serio, non un incentivo economico superficiale. Non si tiene conto dei fattori genetici, metabolici, psicologici e ambientali che influenzano il peso. Ogni persona ha un percorso diverso, e legare il benessere a un obiettivo numerico, misurato in chili, è semplicemente sbagliato e umiliante. Queste pratiche rischiano di peggiorare il rapporto con il cibo e il corpo, aumentando ansia e senso di colpa nei dipendenti.
Il peso della discriminazione e il vero sostegno che manca
Le aziende che scelgono di premiare la perdita di peso con soldi dovrebbero interrogarsi su un altro aspetto: quanto queste politiche possano diventare discriminanti. Chi non riesce a dimagrire — magari per motivi di salute o genetici — viene di fatto penalizzato, escluso da benefici che spettano solo ai “virtuosi”. Si genera un clima tossico nei luoghi di lavoro, in cui i corpi sono costantemente sorvegliati e giudicati. E cosa accade a chi ha disturbi alimentari? O a chi sta già affrontando un percorso terapeutico?
Piuttosto che investire in bonus individuali, le aziende dovrebbero promuovere veri programmi di salute e benessere: supporto psicologico, attività fisica accessibile, formazione su una corretta alimentazione, ambienti inclusivi e privi di stigma. Il benessere dei lavoratori non passa per il ricatto economico, ma per un approccio rispettoso e personalizzato. L’ennesima corsa ai chili persi per qualche euro in più rischia solo di umiliare, isolare e fare ancora più danni. Serve una cultura aziendale nuova, che metta davvero al centro la salute, e non l’apparenza.